Il potere delle parole

/Data
27.1.2021

/Titolo
L'alfa e l'omega

/Autore
Annalisa Magone

/Risorse
• L’ articolo su Linkedin
• Tutti gli appuntamenti di Futuro Prossimo
• Il sito di Atelier dell'impresa ibrida

/Tag
innovazione sociale, no profit, terzo settore

/Condividi

Dean Coombs compone il settimanale «The Saguache Crescent» con la linotype

A lungo è stata un tipo di motorizzazione. L’auto ibrida è comparsa per la prima volta sul mercato italiano negli anni ’90, si trattava della Multipla in una versione ibrida di serie, benzina più Gpl o metano. Della stessa auto, se ne produsse una manciata di esemplari anche nella motorizzazione benzina-elettrico, una scelta di nicchia fino a quando la sensibilità ambientale è cambiata insieme all’atteggiamento generazionale. Da un anno a questa parte, lo spettatore televisivo appassionato di spot pubblicitari non troverebbe un solo nuovo modello privo di motore ibrido elettrico.



Ibrido è una parola che funziona dalle numerose applicazioni e coloriture. Da quando termini come “virale” non si possono più adoperare per descrivere un fenomeno che si propaga, cresce e contagia allegramente contesti diversi, il qualificativo “ibrido” sembra il candidato ideale a descrivere un mondo nel quale le categorie si fanno sempre più sfumate; e nel quale tali sfumature portano vantaggi e valore, invece che disordine e inefficienza.



Chi si occupa di innovazione e lavoro ha frequentazioni sempre più assidue col termine. Dei lavori ibridi abbiamo parlato in un precedente articolo, poi ci sono le competenze ibride (metà hard e metà soft) e la formazione ibrida (anche conosciuta come blended, che rimescola presenza e distanza, confronto in aula e autoformazione), infine c’è il contratto ibrido, con almeno due accezioni.

  • La prima accezione si riferisce alla formula disegnata in Italia da un grande istituto bancario che, per un particolare tipo di impiegati, regola in modo originale il rapporto di lavoro: esso è simultaneamente un lavoro subordinato e un lavoro autonomo.
  • La seconda accezione è stata proposta da Marco Bentivogli, a lungo segretario generale della Fim Cisl e oggi coordinatore nazionale di Base Italia. Il contratto ibrido nella formulazione di Bentivogli dovrebbe rinnovare i modelli di regolazione facendoli aderire meglio all’industria 4.0, il contesto aziendale nel quale prende corpo un vero paradosso: in un ambiente industriale avanzato, dove la qualità e la robustezza del processo sono tutto, a ciascun lavoratore viene richiesto al tempo stesso di contribuire con rigore al disegno collettivo, ma di metterci del proprio; di garantire lo standard, ma di rispondere in modo creativo a un processo che richiede adattamenti continui.

In occasione di un evento TED del 2014, il tecnologo Ray Kurweil affermò che la nostra corteccia cerebrale sarà connessa direttamente al Cloud, e che ne uscirà potenziata da un pensiero ibrido – metà biologico e metà non biologico. Due anni dopo, il World Economic Forum promosse il discorso sull’industria 4.0 con un video dal titolo The Fourth Industrial Revolution (qui la nostra versione con sottotitoli), che iniziava con queste parole: «L’idea stessa che l’uomo sia un concept naturale sta cambiando. I nostri corpi saranno così ad alta tecnologia che non saremo davvero più in grado di distinguere le parti naturali da quelle artificiali».



Nei giorni delle consultazioni portate avanti da Mario Draghi, quando si affastellavano ipotesi sui futuri ministri – chi diceva tecnici e chi politici – si fece addirittura largo sui giornali l’idea del governo ibrido.



A questo elenco di contesti ibridi, si aggiunge l’impresa sociale.


O per meglio dire quel filone di pensiero – in Italia ne sono stati precursori Flaviano Zandonai e Paolo Venturi – che ragiona di ibridazione di modelli fra attori economici tradizionalmente distinti in privato, pubblico e non profit. Con il loro primo saggio Imprese ibride. Modelli d’innovazione sociale per rigenerare valore (2016) tematizzarono il cambiamento in atto, portando esempi di come le imprese tradizionali si stessero aprendo a dimensioni nuove oltre quella strettamente economica; il non profit tendesse a incrementare la quota di beni e servizi offerti in ottica commerciale; lo Stato assumesse un ruolo di promotore e attore di processi partecipativi sempre più larghi.



L’impresa ibrida si studiava più o meno dall’inizio del decennio. In una literary review del 2014 dal titolo Social Enterprises as Hybrid Organizations: A Review and Research Agenda pubblicata su «International Journal of Management Reviews», Bob Doherty, Helen Haugh e Fergus Lyon passarono in rassegna 129 articoli per mettere a fuoco gli elementi distintivi del management nelle imprese che coniugano obiettivi finanziari e sociali. Nel paper, il paragrafo di analisi dedicato alle risorse umane nelle imprese sociali metteva in luce quello che potremmo dire un “eccesso di complessità”.



La combinazione fra attività d’impresa e missione sociale viene spesso stato citata come una forza motivante, per offrire ai dipendenti una ricompensa intrinseca, oltre il denaro, legata alla soddisfazione sul lavoro e all’impatto sulla comunità che esso genera. Molto meno ovvio che, quando un’impresa sociale diventa realmente ibrida, la sua doppia natura porta problemi, divergenze di aspettative, tensioni operative, in poche parole a una potenziale guerra di posizione a tutti i livelli: fra dipendenti retribuiti e volontari, fra incentivi in denaro e incentivi di altra natura; in modo più sottile, fra personale con competenze commerciali e personale con competenze tipiche del sociale, portatori di valori assai diversi che richiamano il management a individuare un punto di equilibrio non scontato.

Per non parlare del fatto che l’esposizione al mercato potrebbe alla lunga cambiare orientamento ai valori originari, con impatti inevitabili sulla leadership, le relazioni interne, il senso di identificazione, le metodologie di reclutamento, il processo di crescita. Il rischio opposto è che l’impresa sociale si faccia influenzare a tal punto dalla cultura dei donatori o del cliente pubblico da smarrire anche in questo caso la strada, con conseguenze sulla gestione delle risorse umane – di un certo tipo, selezionate in un certo ambiente, per un certo scopo e solo quello.

Entra qui, a gamba tesa, il solito problema della leadership: secondo alcuni studi, la crescita del fenomeno delle imprese sociali avrebbe generato una domanda di leadership che supera di gran lunga l’offerta di competenze adeguate, ovvero adatte alla filosofia ibrida e quindi capaci di gestire la doppia missione – ottenere risultati finanziari generando valore, mentre si costruisce un capitale sociale composto da una vasta gamma di stakeholder.



Infine il punto più bruciante: le imprese sociali sarebbero talmente prese dal problema dell’impatto sociale esterno, da trascurare gli investimenti nella responsabilità sociale interna. Cioè verso la propria gente.

**

Atelier Impresa Ibrida terminerà le attività l’8 aprile 2021, premiando i migliori progetti di innovazione presentati dai corsisti con due contributi da 10.000 euro (primo classificato) e 5.000 euro (secondo classificato). Per scoprire le prossime attività e rivedere i digital talk della edizione 2020, segui Facebook, Instagram, Twitter e YouTube.

(*) ph : Nella fotografia scattata nel 2016, le mani di Dean Coombs, editore e direttore del «The Saguache Crescent» in Colorando, mentre compongono la pagina a stampa con i blocchetti creati con una Linotype del 1921. Coombs usa la stessa Linotype acquistata dalla famiglia, proprietaria del giornale dal 1917; si tratta dell’ultimo settimanale negli Usa che impiega questa tecnologia. La maggior parte dei giornali ha dismesso la Linotype più di 40 anni fa, sostituendola con la video composizione. La fotografia è di Justin Sullivan per Getty Images (the baltimore sun).